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Il mondo dell’impresa ha bisogno degli umanisti?

Un’intervista di BAM! al Prof. Andrea Bonaccorsi su innovazione, impresa e la dura vita degli umanisti, a partire dall’esperienza della Summer School in Entrepreneurship in Humanities di Fondazione Golinelli

Il mondo dell’impresa ha bisogno degli umanisti? Chi si laurea in scienze umanistiche può apportare un valore aggiunto al mondo dell’innovazione? E se sì, quale?

Abbiamo incontrato Andrea Bonaccorsi, professore ordinario di Ingegneria Gestionale all’Università di Pisa, per parlare di innovazione e impresa culturale e provare a rispondere a queste domande.

Andrea Bonaccorsi è anche ideatore della Summer School in Entrepreneurship in Humanities, un programma realizzato dalla Fondazione Golinelli che si rivolge a giovani laureati in discipline umanistiche e affronta il tema del fare impresa a partire da saperi umanistici.

A intervistarlo è stata la nostra Alice Merenda Somma, che nel 2018 ha frequentato la prima edizione della Summer School.

impresa ha bisogno degli umanisti

Come nasce la Summer School in Entrepreneurship in Humanities della Fondazione Golinelli?

La Summer School in Entrepreneurship in Humanities è una novità per la Fondazione Golinelli perché copre un settore di attività, quello dell’imprenditorialità a partire da laureati umanistici, poco rappresentato nel mondo dell’accelerazione di startup. Questo mondo infatti si rivolge prevalentemente alle aree scientifiche, in particolare alle scienze della vita nell’esperienza della Fondazione.

La Summer School è il risultato dell’incontro tra la visionarietà del fondatore Marino Golinelli, scienziato, imprenditore ma anche collezionista ed esperto di arte contemporanea e un’idea che ho sviluppato combinando creativamente componenti delle mie esperienze di vita lavorativa e accademica.

Mi spiego meglio. L’imprenditorialità è un capitolo necessario di ogni ricerca e didattica sull’innovazione, che è la mia disciplina. Da anni facevo, in aula e con gruppi di startup, attività sulla creazione imprenditoriale, soprattutto nell’alta tecnologia. Inoltre a Pisa per molti anni ho accompagnato la nascita e la crescita di un certo numero di spin off di alta tecnologia.

Poi, lavorando presso Anvur a Roma (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca n.d.r), ho conosciuto e collaborato – e anche litigato! – con moltissimi umanisti, lavorando sulla progettazione dei sistemi di valutazione della ricerca. E così ho iniziato ad ammirarli in maniera smisurata. Mi sono confrontato con figure di grande spessore intellettuale, di una passione per la ricerca senza limiti e anche, e forse questo è meno ovvio, di un rigore metodologico in niente inferiore a quello delle scienze pure.

Sono arrivato alla conclusione che quel mondo avesse bisogno di una novità, soprattutto per il drammatico mismatch che esiste tra una formazione accademica e dottorale di alto livello nelle discipline umanistiche, che nasce da una tradizione italiana antica e gloriosa, e gli sbocchi occupazionali, spesso modesti.

Perché mai il mondo dei laureati e dottori di ricerca umanisti deve essere completamente escluso da una riflessione sulla entrepreneurship innovativa? La Summer School nasce per rispondere a questa esigenza, a partire da una ricombinazione creativa tra due i mondi, imprenditorialità e ricerca umanistica, che ho abitato parallelamente.

impresa ha bisogno degli umanisti

Sono gli umanisti che hanno bisogno dell’impresa o è l’impresa che ha bisogno degli umanisti?

La domanda è interessante perché le imprese hanno iniziato da molti anni ad assumere umanisti, ma lo fanno con un’ottica molto particolare. Quando va bene, in attività digitali che richiedono una cultura e una brillantezza intellettuale particolare. Altrimenti nella gestione delle risorse umane dove, soprattutto nel reclutamento, la componente dell’HR che guarda alle capacità di analisi psicologica, di capacità introspettiva, di empatia nei colloqui ha una buona tradizione di raccordo con la formazione umanistica.

Ma è tutto qui, per il resto i laureati umanisti sono richiesti per ruoli spesso modesti. Questo è uno spreco di risorse. Credo che le aziende debbano ancora a lungo riflettere su questo tema.

Io propongo di rovesciare i termini. Noi abbiamo appena iniziato a capire il potenziale di valore economico che deriva dalla combinazione tra un profondo sapere umanistico e la nuove tecnologie, e in tutti i campi della fruizione culturale (musei, istruzione, editoria, concerti, ma anche turismo, intrattenimento, o videogiochi) c’è un potenziale enorme e inesplorato.

Può farci un esempio?

Il mondo dei videogiochi, un mercato che ha un volume di fatturato mondiale superiore a quello della musica. Si è visto che ambientare dei giochi in luoghi che hanno una storia, una cultura e una tradizione basata su aspetti umanistici (penso ai borghi medievali italiani, Monteriggioni per fare un esempio famoso) ha un impatto enorme: milioni di persone motivate a studiare la storia dei paesi medievali in Italia, perché condizione necessaria a proseguire nel gioco.

Questo esempio può sembrare banalizzante, perché i videogiochi ci appaiono distanti dalla cultura umanistica, ma io invito a riflettere invece sulla capacità imprenditoriale di immaginare fruizioni diverse.

Ricordiamoci che nei prossimi anni il grado di integrazione culturale tra grandi culture sarà enorme – penso al recente lavoro di un autore arabo che, riflettendo sulla propria vicenda biografica, rilegge l’arte senese del ‘300 dal punto di vista di una cultura non occidentale (Hisham Matar, Un punto di approdo, ndr).

Si aprono un’infinità di mondi e c’è spazio per una definizione originale che gli umanisti italiani sono titolati a fare, a patto che vengano condotti nell’avventura imprenditoriale con un minimo di incoraggiamento.

Questo esempio sui videogiochi mi fa pensare alla polemica sul videoclip di Mahmood girato al Museo Egizio di Torino.

Non l’ho visto, sono in difetto!

Ogni volta che si verifica una cosa di questo genere, qualcuno ritiene che il patrimonio culturale sia stato svenduto a un’operazione commerciale.

Qualche tempo fa ho fatto un post su LinkedIn, mettendo la foto della Ferragni agli Uffizi di traverso, come per dire che non mi appassiona la questione. In generale direi che siamo tornati indietro su questo tema. L’esperienza della Summer School in Entrepreneurship in Humanities mi insegna che i giovani sono molto oltre questo genere di dibattito.

Inizialmente avevo concepito la Summer School con una lunga introduzione interamente affidata a docenti umanisti, come se ci fosse bisogno di avvicinarsi gradualmente al tema dell’imprenditorialità culturale. Ho scoperto che c’era invece il desiderio di andare direttamente al cuore della questione: capire in che modo il tema del valore nelle sue varie componente, alcune economiche ma non solo, possa essere impostato a partire dalla cultura umanistica.

Per fare tutto questo bisogna sperimentare. Uno dei motti classici dell’innovatore è: “meglio chiedere scusa che permesso“. Dobbiamo avere molta più tolleranza e fare molti più esperimenti.

 

Ho l’impressione che anche gli umanisti abbiamo una certa diffidenza verso il mondo imprenditoriale, per ragioni culturali e/o di cultura politica.

La domanda è complessa e la risposta ha diverse dimensioni.

Cominciamo: c’è sicuramente una tradizione italiana che ha radicalizzato la differenza tra bene pubblico e privato, assegnando al mondo culturale e umanistico la dimensione del bene pubblico, ma anche mettendo al primo posto il tema della preservazione e della cura, e pensando che invece il tema della fruizione fosse invece secondario o addirittura commerciale.

Io lo ritengo un modo di vedere le cose sbagliato che viene anche progressivamente smentito dai fatti. Penso ad esempio alla polemica che seguì le nomine dei direttori dei musei da parte del ministro Franceschini. Andando empiricamente a vedere i risultati, quella polemica non aveva fondamento: in molte di quelle esperienze, dagli Uffizi a Pompei, a Caserta, a Torino, vi sono stati risultati straordinari.

Quindi sicuramente questa linea culturale c’è, ma non mi pare supportata dall’evidenza delle esperienze più recenti né tanto meno ne trovo traccia nella mentalità dei laureati che abbiamo avuto in aula.

C’è un’altra possibile strada: immaginare che l’impresa possa essere uno strumento per fini anche pubblici che può stare, se correttamente intesa, sullo stesso piano degli strumenti pubblicistici.

Tra i beni e gli strumenti che valorizzano i beni non c’è una relazione uno a uno, tale per cui il bene pubblico deve essere solo valorizzato da un soggetto pubblico (traduco in maniera più concreta: “l’opera d’arte deve stare solo in un museo pubblico”). Ci sono combinazioni variabili, in cui è possibile che una forma d’impresa riesca a rispettare la natura pubblica dei beni culturali. Un’impresa che preservi la natura non esclusiva, non appropriabile, non commerciale nel senso stretto, dei beni, ricombinandola però con degli elementi che consentono la sostenibilità economico finanziaria.

Questo è un percorso nuovo che richiederà quindi del tempo per essere messo alla prova e validato. Ci sono però i primi interessantissimi segnali.

 

impresa ha bisogno degli umanisti

Un esempio di ricombinazione virtuosa tra bene pubblico e impresa privata?

Sicuramente la nascita del software libero e la storia della sua evoluzione.

Il fondatore del software libero era una persona assolutamente geniale, ma anche molto ideologica: il suo obiettivo era punire Microsoft, si chiamava Richard Stallman.

Stallman lanciò la Free Software Foundation per insegnare al mondo a scrivere il software, diffonderlo in maniera completamente gratuita, e così punire il ‘cattivo’, ‘commerciale’ Bill Gates, che all’epoca cominciava a dominare i mercati.

Nel giro di pochi anni divenne chiaro che quell’idea geniale era qualcosa che si poteva fare nel tempo libero, ma non portava lavoro ai programmatori. Di più: non era nemmeno un prodotto adatto alle esigenze degli utenti. Il software libero costava meno di Microsoft, ma non era affidabile, perché il tipico programmatore creativo scriveva pezzi di codice, li pubblicava in rete senza che nessuno poi si curasse del lavoro di adattamento, consulenza, customizzazione e manutenzione, che invece è fondamentale per l’utente finale.

Nasce così un secondo movimento, quello dell’open software, un movimento misto, dove ci sono sia i creativi, che la notte non dormono e scrivono codice come fosse un’opera d’arte, sia le imprese che prendono software libero, lo customizzano e lo rivendono for profit, per mantenere delle imprese di programmatori di alta qualità. In pratica si sono inventati i cosiddetti modelli ibridi.

Ho raccontato questa storia anche in pubblicazioni scientifiche perché è illuminante.

Parlavamo di bene pubblico e impresa privata. Ecco: il software libero è un bene pubblico, in questo caso, perché una volta scritto tutti lo possono copiare. Attorno però si è sviluppato un movimento che ha ibridato le forme organizzative, combinando pubblico, privato e mercato.

(Attenzione: nel mondo del software libero rimane tuttora una forte componente anticapitalista, una cultura che anche in California e nella Silicon Valley ha avuto un ruolo importante nel generare innovazioni ribelli rispetto alle grandi imprese obsolete. Forse l’aspirazione anticapitalista originaria si è fatta meno radicale, ha fatto qualche compromesso col mercato, ma senz’altro l’impatto del movimento è stato enorme).

Tornando a noi, perché ho raccontato questa storia? Perché secondo me, nel campo dei saperi umanistici e della cultura, questa ibridazione non è ancora stata studiata, esplorata, praticata. Si può fare moltissimo e in Italia abbiamo le condizioni per farlo.

 

Anche la Summer School in Entrepreneurship in Humanities si è dovuta adattare al distanziamento sociale, com’è andata l’edizione digitale del 2020?

Noi eravamo partiti con molta preoccupazione, perché naturalmente la Summer School non è soltanto aula ma è anche soprattutto lavoro in gruppo che spesso continua in modo informale oltre l’orario stabilito. Invece l’edizione ha superato le aspettative, grazie a due fattori.

Da una parte l’esperienza della Fondazione Golinelli nella gestione della piattaforma online, dall’altra una pianificazione dettagliatissima di tutte le fasi da parte del partner Gate SpA: organizzazione e puntualità sono fondamentali nell’organizzazione di attività online. Alla fine posso dire che la qualità dei progetti finali non è stata in nulla inferiore alle edizioni precedenti, anzi ho notato una maturazione.

 

Viviamo ancora in un momento di estrema incertezza, ma vogliamo essere speranzosi, cosa c’è nel futuro della Summer School?

Molti progetti. Intanto in questo anno si svolgerà, in aggiunta alla edizione di Bologna, una edizione nuova a Reggio Calabria, progettata con Gate SpA, con il supporto della Fondazione con il Sud e la partecipazione di partner locali come Entopan, Oasi e Arci Servizio Civile. L’idea è di sviluppare la proposta nel Sud, dove l’esigenza di imprenditorialità è particolarmente forte.

Poi occorre iniziare ad esplorare l’interesse della finanza di rischio per progetti imprenditoriali basati su cultura e ricerca umanistica. Dopo le edizioni 2021 a Bologna e Reggio Calabria organizzeremo dei seminari con vari soggetti potenzialmente coinvolgibili. La Scuola estiva prepara il terreno, è una operazione a lungo termine. Occorre iniziare a vedere se i progetti di impresa sono sufficientemente maturi da attrarre l’interesse dei finanziatori. Il cantiere è aperto.

 

Andrea Bonaccorsi è professore ordinario di Ingegneria Gestionale all’Università di Pisa.

Si occupa di economia e management dell’innovazione e ha pubblicato sulle principali riviste internazionali, ricevendo quasi 12.000 citazioni in Google Scholar e entrando nella lista dei 100.000 ricercatori più attivi del mondo (il top 2%) in tutti i settori scientifici secondo PlOS ONE. È stato tra i membri del ristretto gruppo di esperti che hanno supportato i due ultimi Commissari europei alla ricerca e all’innovazione (I4G, RISE) e ha collaborato con vari ministeri e regioni.

Ha fondato due spin off universitarie e per vari anni ha promosso e guidato un fondo pubblico di seed capital che ha consentito il lancio di molte startup. Per oltre un anno ha tenuto settimanalmente una rubrica su Nova – Il Sole 24 Ore chiamata Il breviario dell’innovatore, nella quale utilizzava brani della letteratura mondiale per commentare gli ostacoli che incontrano gli innovatori nella realizzazione dei progetti di cambiamento.

È l’ideatore del progetto della Summer School in Entrepreneurship in Humanities promosso nel 2018 e 2019 dalla Fondazione Golinelli, le cui edizioni 2020-2021 sono organizzate dalla Fondazione in collaborazione con GATE.

Nel settore della ricerca umanistica ha pubblicato di recente The evaluation of research in Social Sciences and Humanities presso l’editore Springer e collabora con la rete europea ENRESSH. Ha in preparazione uno studio sull’economia della ricerca umanistica.

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